IL SILENZIO VIBRA PIÙ’ DELLE PAROLE
Nel 1917 un pensatore spagnolo, José Ortega y Gasset, cominciò una conferenza con questa provocatoria affermazione: “Nessun maestro può insegnare. Di giorno in giorno si conferma dentro di me il sospetto secondo cui nulla che valga davvero la pena di essere appreso può essere insegnato”
ll riferimento riguardava l’insegnamento delle arti o delle scienze, ma il richiamo vale anche per il Tai Chi Chuan o per le Arti Marziali in genere.
Cosi recita il Dao Dejing. “La via di cui si può parlare non può essere la Via eterna”
Infatti, quando si tenta di comunicare l’essenza di un insegnamento, per quanti sforzi si facciano, vi sarà sempre, inespresso, un particolare, un’ultima precisazione, un’ultima goccia, un ultimo possibile gesto per comunicare ciò che comunicabile non è.
Sta proprio in quel particolare, in questo ultimo possibile raffinamento, l’elemento mancante atto a trasmettere la completezza.
Le sequenze, le forme, seppur composte da tanti, tantissimi preziosi dettagli, altro non sono se non dei contenitori, degli artifici creati dai maestri per impedire che il valore sostanziale evapori e si disperda.
Questo bisogna saperlo e, naturalmente, dire di saperlo non basta. I metodi d’insegnamento proposti da non importa quale scuola, non importa di quale stile, specialmente quelli moderni, “sono intrisi da una triste ambiguità con cui può scendere a patti solo chi abbia fatto del compromesso la norma della propria condotta”, ma che, ad un animo guerriero, possono ispirare, nella migliore delle ipotesi, distacco e indifferenza. Cosa intendono le scuole di arti marziali per insegnamento?
Riversare nella testa e nell’animo degli studenti un carico di forme prefabbricate o tutto al più una serie di metodi finalizzati alla competizione o all’affermazione personale. In tal modo, l’essenza stessa dell’arte sfugge come l’acqua dell’oceano tra le dita del bambino, per lasciare nell’animo l’esatto opposto dell’arte: il dogmatismo.
L’aspetto reale e concreto dell’arte è l’attività dell’essere che si confronta valorosamente e pericolosamente con i problemi e lotta con se stesso al fine di trascenderli. Pervenendo a un nuovo livello, così come quando si giunge a comprendere il significato nascosto di una tecnica o di un gesto, la mole dei problemi aumenta esponenzialmente, ragion per cui la ricerca deve a sua volta essere riveduta e servire solo come base e pretesto per ulteriori approfondimenti, come la terra serve a chi esegue il passo vuoto per essere toccata con il tallone e iniziare un nuovo passo.
Quando il praticante allarga il proprio dominio cognitivo, non pensa più a ciò che sa. Il suo pensiero è già oltre quella momentanea cristallizzazione della propria sofferenza.
Molto di quanto nella sua precedente ricerca sembrava una soluzione definitiva, gli appare ora come un’apertura verso un nuovo percorso, verso una nuova sfida.
Il suo spirito si volge inquieto verso nuovi orizzonti, che, anche se lontani e imprecisi, sono animati ed esercitano una forza d’attrazione ineluttabile. Considerando, senza la dovuta ironia, la conoscenza trasmessa attraverso discorsi, conferenze, scuole, libri, manuali o commentari, l’arte appare come qualche cosa di definitivo e pietrificato.
L’arte invece, quella vera, non è fatta di conclusioni; è azione, azione fluida, moto dello spirito in continuo superamento di se stesso. L’arte scivola attraverso le forme e le tecniche come un fiume invisibile, potente e quieto, attraverso il proprio letto. Ciò che s’insegna in molte scuole moderne, in Oriente o fuori dall’Oriente, è arte congelata, immobile, dogmatica e sterile. Ciò nonostante non mancano uomini che, malgrado o forse proprio a causa della scuola o, a volte, al di fuori di tutte le scuole, sentono sorgere nel proprio cuore una sete e una curiosità alla quale non è possibile resistere (sta forse in questo la vera funzione delle scuole? Creare dei ribelli? incoraggiare
l’eversione?).
I metodi di ricerca sono nient’altro che i risultati del sistema e hanno senso solo all’interno della scuola che li ha creati. Variando i principi della dottrina, variano i metodi della ricerca. L’indagine impersonale, automatica e imparziale induce molti insegnanti a ritenersi esenti dal formarsi una nozione sull’essenza.
Così facendo, proprio per non confrontarsi con la natura dell’arte, spendono la loro vita invano, agitandosi in un contenitore vuoto o inesistente.
L’arte marziale non è un lavoro comodo e non può realizzarsi al riparo di una serie di formule apprese. Una tale arte è una contraddizione: chi aspira seriamente alla dignità di maestro deve avere il coraggio di vivere sempre esposto alle intemperie spirituali. Come un guerriero, un cacciatore o uno scienziato, sa a priori che le sue intuizioni non saranno comunicabili ma sa anche che, se è convinto che una cosa non si possa conoscere, non si potrà mai conoscere. Il vero maestro dovrà solo indicare e, nel caso delle arti marziali, suggerire allo studente quei movimenti, quei gesti, quelle immagini atte a evocare lo stato psicologico d’aspettativa concentrata che crea la risposta a problemi solo apparentemente non risolvibili. Il fatto che la Cina contemporanea appaia così soddisfatta dei propri centri d’insegnamento malgrado in essi non si impari l’essenza delle arti, rivela semplicemente che alla Cina, come al resto del mondo contemporaneo, non interessa più l’arte e, meno che mai, l’arte marziale; non a causa di un occulto disegno, ma perché la gente non sospetta neppure lontanamente che cosa sia.
Oggigiorno non si chiedono conoscenze, ma ricette: ricette per fabbricare computer, telefonini, vetture sempre più potenti o per operare manipolazioni genetiche, eccetera. Quando si parla di cultura ci si riferisce alla comodità, a nuovi programmi informatici, a nuovi medicinali o al prolungamento della vita fisica ma sopratutto ad una sfrenata produzione di ricchezza.
Si obbietterà che è sempre stato cosi, che quei miliardi di individui, chiamati genere umano, sono sempre stati insensibili nei confronti della totalità della vita e che la loro massima aspirazione è stata quella di acquisire potere.
Questo è evidente. Ma in altre epoche la gente non era una protagonista informata e responsabile come dovrebbe e potrebbe avvenire nella nostra era (l’era appunto dell’informazione).
Se è vero che le masse vivevano relegate in secondo piano, si permetteva che risuonasse la voce dei saggi, la cui opinione oggi è sopraffatta dall’urlo torrenziale dell’opinione pubblica che è, a sua volta, plasmato e appiattito da una cultura serale, seriale e insulsa.
E’ inevitabile e forse giusto, quindi, che l’opinione pubblica, per la quale l’arte non può esistere, chieda soltanto ricette e che questo, comportando un calo nella potenzialità artistica, generi l’impossibilità di produrre maestri.
E’ giusto allora far notare che l’arte marziale di cui si può parlare non può essere la vera arte.
Possiamo anche convenire di chiamarla così: due sillabe tra due vocali, ma bisogna sapere che si tratta allora di due-sillabe-tra-due-vocali; dei piccoli segni convenzionati e pietrificati, concepiti solo in vista della loro utilità.
In altri tempi, quando l’arte marziale emergeva dalla pratica di discipline legate alla sopravvivenza, se ne parlava meno e chi ne parlava, anche se non riusciva a comunicarlo, sapeva cosa intendeva e nessuno poteva abusare del significato equivoco del termine per fingersi interessato a ciò che invece gli era indifferente, se non addirittura odioso.
Oggi è così, proprio così. La maggior parte della gente, il super tecnico, il politico, il cattedratico, cosa sa del sottile dramma permanente del ricercatore, sempre in dubbio con se stesso, preoccupato senza tregua dell’installarsi di una conclusione definitiva che equivarrebbe per lui morire ?
Che spazio c’è per le espressioni artistiche nella civiltà contemporanea?
Da dove emerge con maggior chiarezza l’incapacità e l’inutilità di insegnare arte? Dall’opinione pubblica e dal senso comune che considera l’arte come cosa superflua.
Dove, dunque, s’insegna la sublime emozione artistica?
In nessun luogo. Non si insegna né a godere dell’arte, né a crearla, perché nessuna di queste due delicate capacità umane tollera di essere insegnata meccanicamente. Essere un artista, nel nostro caso un artista marziale, dovrebbe significare, innanzi tutto, aver sconfitto la madre di tutte le paure: la morte.
L’aver riportato questa vittoria equivale a far risuonare la propria anima in una modulazione originale, mai prima ascoltata; significa aggiungere un elemento insperato alla nostra capacità cognitiva e avvicinarci, uniformarci alla natura, alla via o, se volete, al Tao.
Molte scuole di arti marziali promettono di rinforzare il nostro carattere e insegnarci una morale, pretendono in altre parole di insegnarci a vivere.
Orbene, la vita esperimenta, utilizzando l’individuo, la sua creatività e lo delega a elaborare sempre nuove risposte alla naturale tendenza all’annichilimento.
Non siamo noi a vivere, ma è la vita che ci utilizza per poterlo fare. Noi siamo in quanto siamo differenti dagli altri. Ciascuno di noi è il prodotto di una personalità unica con atteggiamenti specifici, desideri unici, necessità incomparabili e doveri originali. ln ognuno di noi riposa più o meno profondamente, il Talacimanno (ll Maestro che riposa nel talamo al centro della stanza più nascosta e protetta del palazzo), ma quanti sono quei fortunati che hanno potuto godere del suo risveglio, quanti al termine degli anni di apprendimento e di addestramento portano impressa nella coscienza l’idea che, più forti e più deboli, più o meno dotati che siano, tutti hanno in sé la delicatissima possibilità di qualcosa di nuovo, di bello e prezioso e che la vita deve costituire per loro il più armonioso e il più valido degli esperimenti?
Pensate all’enorme quantità d’energia individuali dell’umanità che risultano frustrate e sprecate per la pretesa di certe scuole contemporanee, naturalmente non solo quelle marziali, di insegnare agli uomini come devono vivere.
Arte e morale non possono essere insegnate meccanicamente e se i praticanti si ritengono soddisfatti di tale insegnamento è perché si ritengono gratificati dei “termini” e rinunciano anticipatamente ai contenuti.
Basta una minima deviazione perché arte e morale si convertano in vuote suggestioni.
Il nostro maestro spagnolo Ortega y Gasset così ha definito le parole: “…sono mistiche bollicine incorporee sprigionatisi dalla cavità dell’anima che, a volte, s’infrangono alle vibrazioni dell’aria disperdendo il loro liquido interno”.
Forse sarebbe opportuno che il buon medico, il buon industriale, il buon ingegnere, il politico non parlasse né della morale, né tanto meno dell’arte. Questo potrebbe essere un fatto positivo.
L’aspetto negativo, grave, quello che può mettere in pericolo il futuro delle arti, è che, fraintendendone il significato, le si svuoti del contenuto.
Il sistema-cultura della nostra epoca cerca di allontanarci dalla riflessione sull’unico vero quesito: il senso della vita umana.
Sì tratta di quell’ignoranza dell’universale, di quell’attaccamento ai particolari di cui soffre l’erudito specializzato.
Siamo tutti immersi in questo fluire immenso e dinamico che è la vita.
Non sarebbe forse opportuno che di tanto in tanto cercassimo di alzare la testa dall’anonima corrente del senso comune per guardare dove ci trascina il fiume?
Come l’arciere cerca un obiettivo per le sue frecce, non dovremmo noi cercarlo per le nostre vite?
La parte più sottile del nostro essere, la vibrazione infinita, corrisponde alla serenità nel mezzo del vortice vitale, nella moltitudine di desideri, amarezze e gioie. Corrisponde al silenzio che permette il manifestarsi del suono, all’immobilità che consente il movimento. Sono necessari calma, silenzio, e immobilità per prendere coscienza di una direzione, di un senso capace di orientare e dare significato alla vita. La maggior parte degli uomini vive attenta soltanto al proprio interesse o preoccupata per ciò che le accade; lasciati soli la loro vita avrebbe sempre meno pulsazioni, i loro interessi diventerebbero sempre più meschini, il loro raggio d’azione sempre più angusto e i loro cuori sempre più aridi. Per questo è necessaria la missione degli “uomini di buona volontà”, dei saggi e dei Bodhisattva, una missione che consiste nel proclamare la necessità della sofferenza volontaria. Una pratica che, pur dilaniando l’anima, da potenza alla vita. Ecco perché quando ci si avvicina a un vero saggio si riceve un autentico slancio vitale.
(Arti d’Oriente gennaio/febbraio 2004)

Altre STORIETTE RACCONTI ACCADIMENTI sono contenute nel suo blog STORIETROPPOVERE Tracce mnestiche e indizi per una biografia

M° Franco Mescola